Durante il 34° FESCAAAL, la Giuria Universitaria Under 30, composta da 13 studentesse e studenti di diversi atenei, ha avuto l’opportunità di seguire un corso dedicato alla critica cinematografica tenuto da Longtake, assistere in sala alla proiezione di tutti e dieci i film del Concorso Lungometraggi assegnare il Premio della Giuria Universitaria.
Il percorso ha fornito loro gli strumenti per approfondire il linguaggio del cinema dei tre continenti e sviluppare uno sguardo più consapevole e critico, che ciascuno ha messo in pratica scrivendo una recensione su uno dei film visionati, offrendo una riflessione personale sulle opere che hanno segnato questa edizione del festival.
Le recensioni di “Yunan”, il film vincitore del Premio della Giuria Universitaria
Tre membri della Giuria hanno scelto di recensire Yunan del regista siriano Ameer Fakher Eldin, uscito il 24 luglio nelle sale italiane e premiato come miglior film proprio dalla stessa Giuria Universitaria del 34° FESCAAAL con la seguente motivazione: “Per l’efficacia con cui il mezzo cinematografico mostra l’esule, lo smarrimento e l’alienazione dell’io, per come rappresenta l’uso dell’immaginazione come rifugio e lo sradicamento culturale e politico attraverso una dimensione onirica e simbolica.”
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Giorgia Africano (Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano)
YUNAN: una riflessione su esilio e rinascita
Il dialogo interiore, la ricerca del senso della vita e la consapevolezza della caducità del tempo sono solo alcuni dei temi cardine attorno a cui ruota Yunan, film del 2022 scritto e diretto da Ameer Fakher Eldin. Quest’opera non è solo una narrazione cinematografica, ma un messaggio esistenziale e poetico rivolto a chi si trova ai margini, a chi si sente sospeso tra luoghi e identità, tra passato e presente. Yunan parla di dolore e di speranza, e lo fa con delicatezza, evitando enfasi drammatiche per lasciare spazio alla contemplazione, alla silenziosa trasformazione dell’animo umano e al ritrovamento inaspettato dell’io.
Al centro della storia c’è Munir, uno scrittore arabo in esilio, interpretato con grande intensità da Georges Khabbaz. La sua esistenza è segnata da confini invalicabili: barriere emotive, geografiche e culturali che lo separano dal mondo e dalla figura materna. È proprio questo strappo profondo, questo momento di profonda vulnerabilità, ad innescare in Munir un viaggio, tanto fisico quanto spirituale, che lo porterà a cercare una nuova via per sopravvivere.
Il tema dell’esilio è centrale, ma viene affrontato con uno sguardo nuovo. Non è solo l’esilio forzato da un paese, ma anche quello da sé stessi. Munir è un uomo frammentato, in lotta con il suo passato, le sue radici e la sua identità sospesa. In lui convivono una profonda nostalgia e una crescente disperazione. La solitudine e il dissidio interiore che lo accompagnano nel suo esilio però si trasformano, lentamente, attraverso il confronto con l’altro. Le figure che incontra – personaggi apparentemente semplici che rivelano pian piano la propria complessità interiore, come Valeska (interpretata da Hanna Schygulla) – diventano il veicolo del cambiamento, il riflesso in cui Munir può finalmente ritrovare una parte di sé ormai dimenticata.
Personaggi come Karl, il figlio di Valeska (interpretato da Tom Wlaschiha), contribuiscono con la loro presenza discreta alla costruzione di un nuovo equilibrio. Attraverso la loro presenza silenziosa favoriscono la riconnessione del protagonista con il mondo. In Yunan, il contatto umano è essenziale, ma mai forzato. Il significato si costruisce nei vuoti, nei silenzi, negli sguardi.
Il film non propone soluzioni facili né finali consolatori. Il cammino del protagonista è intimo e personale, fatto di piccoli gesti, di silenzi condivisi, di momenti di introspezione. La relazione con Valeska è centrale in questo processo: è una donna di poche parole ma di grande profondità, rappresenta un’accoglienza non giudicante, un’empatia che non cerca spiegazioni, forse anche quella figura materna che sembra per l’uomo così distante. Attraverso di lei, Munir ritrova un frammento di calore umano, una possibilità di appartenenza che sembrava perduta.
Il paesaggio, in Yunan, non è solo sfondo ma protagonista vivo e simbolico. L’isola in cui Munir si rifugia diventa simbolo di isolamento ma anche di possibile rinascita. La natura, aspra e solenne, lo accoglie come luogo in cui abbandonare il proprio tormento. Le scelte registiche e fotografiche riflettono questa atmosfera: troviamo inquadrature lunghe e silenziose, cieli cupi, campi vuoti e distese d’acqua che sembrano sospese nel tempo. La fotografia di Ronald Plante si fa carico del peso emotivo del film, restituendo con grande sensibilità lo stato vulnerabile e malinconico del protagonista.
Proprio questo paesaggio introduce in modo naturale la dimensione simbolica e onirica dell’opera. Alcune sequenze sembrano emergere da un sogno, o da una memoria distante. In questo senso, Yunan non è solo un film realistico, ma anche una riflessione visiva sull’identità e sul trauma. La natura diventa allegoria del limbo interiore in cui Munir si trova intrappolato, un luogo che richiama le teorie post-coloniali di Homi Bhabha, in cui lo straniero vive in uno spazio sospeso, né qui né altrove. Munir è immerso in questo non-luogo, e solo attraverso un percorso doloroso potrà riconciliarsi con le sue origini e accettare la complessità dell’esistenza.
Per quanto riguarda la produzione internazionale del film – che coinvolge Germania, Italia, Palestina, Giordania, Qatar e Canada – riflette la natura transnazionale del tema trattato e del suo protagonista. Questo intreccio di luoghi reali e simbolici rafforza l’idea che l’identità sia mobile, sempre in divenire.
Yunan è un film che invita lo spettatore a rallentare, a guardare oltre l’immediatezza, a farsi domande. Offre occasioni di riflessione. È un’esperienza che richiede attenzione e disponibilità emotiva, ma che sa ripagare con momenti di estrema bellezza e profondità. Per chi è disposto a lasciarsi trasportare in un viaggio introspettivo, questo film è una guida silenziosa, un invito alla riscoperta del sé attraverso il confronto con l’altro e con la natura.
Stefano Catanese (Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano)
Yunan, un viaggio dentro sé stessi
Ameer Fakher Eldin, 3 anni dopo il suo primo lungometraggio, The Stranger ( 2021 ), ci porta in un viaggio introspettivo.
Se vi capita spesso di sentirvi soli, o di domandarvi quale sia il vostro posto nel mondo, questo film fa esattamente al caso vostro: la pellicola ha come protagonista Munir, uno scrittore che si ritrova ad essere paralizzato dalle sue ansie e dalla paura che sua madre, malata di Alzheimer, possa dimenticarsi di lui. Si sente vuoto, impotente ed immobile, tanto da non riuscire nemmeno a scrivere. Per questo motivo decide di allontanarsi dalla quotidianità, intraprendendo un viaggio nelle pittoresche Halligen tedesche, delle piccole isolette nel Mare del Nord che sanno essere un posto tanto bello quanto ostile, con il fine di ritrovare se stesso ed un luogo di cui sentirsi davvero parte.
Una curata fotografia ci restituisce le immagini come se fossero un quadro, e riesce ad incorniciare le atmosfere ed i sentimenti della vicenda in maniera precisa.
Difatti, il protagonista presenta tante analogie con l’uomo raffigurato nel dipinto di Caspar Friedrich, il Viandante sul mare di nebbia, quadro simbolo del romanticismo; Eldin stesso ha confermato di essersi ispirato all’opera per la realizzazione di alcune scene, che tramite colori, composizione ed atmosfera, rimandano proprio a quel sentimento romantico a cui si è ispirato il pittore tedesco. Munir, così come il viandante, spesso si ritrova da solo a contemplare la natura, che sia in mezzo ai verdissimi prati che circondano il paesaggio, o sopra una piccola altura, scrutando l’orizzonte oltre l’alta marea, cogliendo in questo modo il sublime, lasciandosi travolgere dai propri pensieri.
La sua solitudine è resa cinematograficamente non solo grazie ai riferimenti all’arte ottocentesca, ma anche tramite l’utilizzo dei silenzi. Il rumore del vento, o l’assenza di suono, è orchestrata in modo da risultare maggiore rispetto al numero di dialoghi, ma allo stesso tempo è capace di parlarci in maniera più forte, arrivando dritti alle nostre anime, come arriva all’anima di Munir, che circondato da questi lunghissimi silenzi riscopre sé stesso, ottenendo la capacità di rinascere e di sentirsi quasi a casa.
Il cast della pellicola presenta attori come Georges Khabbaz, nei panni di Munir, la premiata attrice tedesca Hanna Schygulla, e Tom Wlaschiha, il quale ha recitato in serie come Stranger Things e Il Trono di Spade.
Yunan è stato presentato al Festival internazionale del cinema di Berlino 2025, ed è stato premiato dalla giuria universitaria durante l’edizione numero 34 del FESCAAAL a Milano; il film sarà prossimamente distribuito nelle sale italiane, in data ancora da definirsi.
Cristina Colosimo (Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano)
Chi siamo noi? Cosa ci rende vivi?
Il film Yunan di Ameer Fakher Eldin ci pone delle domande esistenziali, pur rimanendo in silenzio.
È proprio questa la forza del film. Riesce ad esplicare uno straziante dramma emotivo. Il protagonista Munir vive con la paura di essere dimenticato, a causa della malattia di Alzheimer della madre che non riesce più a riconoscerlo. Allora il protagonista preso dagli attacchi di panico, cerca viaggiando una ragione per cui valga la pena vivere. Nel film un aspetto centrale è il paesaggio che come afferma il regista è un vero e proprio personaggio. Segnato da importanti contrasti, quali il verde intenso dell’erba del nord della Germania con il deserto e le grotte dei pastori. In una scena Munir si ritrova davanti una natura sublime, come nel quadro di Friedrich “ Il viandante sul mare di nebbia”. L’uomo viene sfidato e affascinato dalla natura, che in questo caso è quella interiore.
Il vento simboleggia il tormento interiore del protagonista. In questo c’è una certa ironia, perché nonostante sia imperante, Munir si sente sempre come soffocare, a causa delle crisi d’ansia. E alla ricerca di essere accettato in un gruppo, quando arriva in una comunità chiusa, nel nord della Germania, tenta di farsi notare, vuol dimostrare che lui esiste. Quando riesce a provare questa sensazione scoppia in una risata, quasi isterica, liberatoria.
Durante la ricerca del suo nostos, del suo ritorno a se stesso e al senso della vita, trova che alla fine noi siamo solo minuscoli granelli di sabbia in un deserto sterminato e forse a nostro modo tutti in balia del vento.

Le attività della Giuria Universitaria si sono svolte nella cornice del FESCAAAL Diffuso, nell’ambito del progetto Fuori per Festival – Diversità e inclusione in prima fila nella città del cinema di prossimità co-finanziato da Fondazione Cariplo.
GALLERY: Il regista Ameer Fakher Eldin al FESCAAAL 2025


